Un progetto strutturale nell’economia nazionale: il distretto industriale.

Un progetto strutturale nell’economia nazionale: il distretto industriale.

 

 

 

Un dotto conoscente prende lo spunto dal mio ultimo articolo, “Una mossa … spericolata.”, per inviarmi alcune sue considerazioni  in merito a quanto da me esposto.

Avendo per anni occupato posti di rilievo e insegnato economia in un noto ateneo, le sue osservazioni sono assai pertinenti e degne di considerazione, anche se, così come le ha formulate, paiono una sfida lanciatami nel web a … costruire nel caos attuale.

Ma procederò con ordine anche se in forma breve, sintetizzando le sue osservazioni che mi paiono solo procedurali.

 

La sua prima osservazione pone un quesito generale:

“… Ricordo il suo operare negli anni ’90 come ideologo in un determinato gruppo e non certo nel ruolo di semplice comparsa. Il Prof.me ne parlava spesso, quasi conOra, leggendola, vedo spesso delle problematiche che, poco dopo, sono impugnate da alcune forze politiche. …”

La sua considerazione, gentile T…, è puramente casuale. Ovviamente tutti possono leggermi, e lo fa pure Lei; ma, non essendo schierato con alcuno, ad ognuno va il merito delle sue azioni. Pertanto si metta l’animo in pace, considerato pure che le tematiche, a cui Lei accenna, sono oggi trattate e dibattute da molti.

In verità ero in amicizia col Prof., ma non facevo parte di alcun gruppo; né sono mai stato suo allievo, appartenendo a discipline diverse. Ci siamo solo scambiati delle idee; e per quanto concerne “come ideologo”, beh, mi lasci dire in totale amicizia: non mi è mai parso d’essere tale!

Ben diverso è il suo ruolo, considerato che occupa pure ora cariche tutt’altro che onorifiche ed i suoi articoli sono pubblicati in prima pagina.

Credo, pertanto, che la sua osservazione dovrebbe essere invertita nei ruoli.

 

Le altre osservazioni ruotano tutte sulla metodologia d’intervento nella recessione attuale. In pratica, sintetizzando, mi si contesta bonariamente di essere “quasi ostile” al sostegno economico statale alle varie aziende in crisi, sia per sostenere il mercato che l’occupazione.

 

Con questo articolo intendo solo ampliare ulteriormente il mio punto di vista, facendo però rilevare che pure in precedenza (mesi fa quando la recessione pareva ancora lontana) ho abbozzato sistemi d’intervento e di sostegno, contestando apertamente anche la politica d’aumento dei Tassi da parte della BCE, proprio mentre T… mi consigliava privatamente “d’essere prudente”.

 

La situazione internazionale in economia non è florida, anzi molto grave; e pure il taumaturgo degli States, ora che ci sbatte di persona il naso, comincia ad annaspare ed a perdere per strada la sua sicurezza populista, tramutando lo slogan elettorale “si può fare!” in una sommessa promessa di impegnarsi al massimo.

Sicché, con un debito pubblico interno che ha raggiunto i 13 trilioni di $, ora vede che sarà giocoforza economizzare se non si vorrà fondere del tutto il sistema America.

Pertanto punto e … a capo di nuovo.

La questione Guantanamo, pur essendo poco “economica”, da già il senso di ciò che intende fare: lo scaricare su altri (possibilmente gli Europei) buona parte degli impegni propri.

Perché, mi si conceda, se un carcere è poco umano e rispettoso delle leggi etiche, oltre che nazionali, non vi è tanto il bisogno di smantellarlo, ma di cambiare le modalità di gestione per farlo diventare quello che avrebbe dovuto essere anche prima.  Ma, giacché i vari Stati non vogliono accogliere i “possibili”[1] terroristi nelle proprie carceri, ecco allora la risoluzione del problema: li affidiamo ad altri e, da perfetto Pilato, ce ne laviamo le mani.

 

In economia il sostegno alle aziende, per ora, continua sulle direttive Bush, perciò sull’aiuto a chi è in grado di dimostrare di poter sopravvivere da solo, giacché pure in campo democratico si è attenti alle spese.

In Europa i vari governi nazionali stanno optando per una politica di intervento diversa e più consociativa, nel tentativo di sostenere il mercato e con questo le stesse aziende.

Pertanto, rifacendomi all’articolo sulla crisi Fiat, ad incentivare il consumatore all’acquisto di nuove auto, onde dare fiato all’asfittica produzione industriale.

Personalmente non sono contrario a tale politica economica se questa è inglobata, però, in un progetto di mercato sostenibile, cioè di una visione ad ampio raggio che non sposti il problema solo di alcuni mesi, perché allora sarebbero soldi buttati.

Appare, infatti, evidente a tutti che non si potrà continuare ad acquistare auto come nel decennio scorso per sostenere l’industria, perché la situazione economica è molto diversa e non lo concederebbe.

C’è poi da porsi il quesito se si voglia continuare a potenziare il trasporto privato a scapito di quello pubblico, poiché è chiaro che non si può acquistare l’auto per tenerla in garage privilegiando poi il trasporto pubblico.

 

Gli incentivi (abbinati ad altri aiuti) possono essere la risoluzione al problema, considerato che la dirigenza Fiat, come i bambinetti[2], annuncia subito che 60.000 lavoratori sono a rischio se non sarà “aiutata”?

Da due anni gli incentivi ci sono, ma non hanno risolto il problema aziendale che, in buona parte, agisce con commesse estere, riservando al Made in Italy il solo assemblaggio.

Negli ultimi mesi dell’anno le vendite si sono drasticamente contratte e solo dicembre si è assestato attorno ad un -13% per un solo fattore tecnico: chi doveva cambiare il veicolo doveva farlo entro il 31-12, onde non perdere l’ecoincentivo.

Perciò gennaio si è chiuso tra un -30% e un -50% tra le varie aziende del settore, mentre gli ordini acquisiti sfiorano addirittura il -60%.

Cifre abissali che indicano la gravità della crisi e delle “intenzioni” del consumatore.

E queste cifre non si discostano molto neppure nelle altre nazioni europee.

 

L’incentivo può essere utile in simile congiuntura negativa? Poco, direi, specie se si considera che l’automobilista normale tenderà a fare meno chilometraggio, specie se la vendita di carburante è crollata del 30% negli ultimi tempi.

L’auto sarà percepita sempre meno come bene durevole tradizionale, quindi come status symbol. Diventerà un mezzo importante di movimento individuale e famigliare destinato ad essere economizzato e mantenuto nel tempo.

Cosa si intende per mercato compatibile? Il produrre tanti veicoli quanti ne abbisogneranno e non in surplus; diversamente non si risolverà il problema, ma lo si sposterà di alcuni mesi aggravandolo pure.

A ciò si aggiunga che la bolla ribassista sul petrolio non potrà reggere a lungo gli attuali prezzi per più fattori.

Il primo è che le compagnie petrolifere e i paesi produttori stanno tenendo in mare aperto il 50% delle petroliere, onde non deprimere ulteriormente il prezzo per eccedenza di prodotto ed aspettare che la risalita del Future conceda utili maggiori.

Il secondo che le bolle sono prima o poi destinate a scoppiare (in alto e in basso), ed allora la risalita potrebbe essere non molto lontana e nessuno può dire dove potrebbe assestarsi.

La recessione, con il brusco rallentamento industriale, ha favorito la riduzione del costo delle materie prime; e questo è un bene. Lo sarà maggiormente se si creerà una struttura economica in grado di assestare domanda ed offerta su valori omogenei e stabili.

 

Alcuni analisti affermano che nel prossimo decennio la richiesta di mobilità porterà il parco autoveicoli mondiale dai 700 milioni attuali a ben 2,5 miliardi. E basandosi su questi dati sostengono che bisognerà produrre auto con costi decisamente inferiori per soddisfare la domanda proveniente dal terzo mondo.

Perciò: auto con minore potenza e spartane, quindi con pochissimi accessori.

Ma, se questa esigenza vale per il consumatore terzomondista, mi pare improbabile che il consumatore occidentale torni all’auto di alcuni decenni fa. Ne consegue che il sistema produttivo dovrà uniformarsi alle esigenze di mercato contingenti delle varie aeree geografiche.

Ammesso che tale cifra si raggiunga – nutro seri dubbi – la Terra diventerebbe una camera a gas. Si pone dunque il problema di combustibili ecocompatibili e, parallelamente, un sistema di trasporto pubblico efficiente alternativo al trasporto privato.

Le nostre città scoppiano già per i troppi autoveicoli e il potenziare il trasporto privato equivarrebbe a paralizzarle.

Ne consegue che sarà giocoforza ideare un nuovo sistema sociale efficiente di mobilità.

 

Poste queste premesse, l’incentivare ulteriormente la produzione/rottamazione ad uso occidentale ha un senso logico e politico?

Oppure non sarebbe meglio usare le poche finanze disponibili per potenziare la ricerca di veicoli ecocompatibili sia per il privato sia per il pubblico? Dove sono finite le ricerche sul propulsore a idrogeno, o analogo, nonostante i proclami propagandistici di anni fa?

La risposta a queste domande indica chiaramente come gli interessi lobbistici di gruppi energetici condizioni pesantemente il nostro futuro.

 

La Fiat, come le altre case automobilistiche non nuota in buone acque. È certo che gli ecoincentivi governativi possono dare una boccata di ossigeno, ma non risolvere il problema di fondo nel medio periodo.

Tuttavia è una società privata di capitali e pertanto può benissimo andare sul mercato per potenziarsi: aumento di capitale, finanziamenti diretti, titoli obbligazionari …

Il problema è che la stessa proprietà non crede nel proprio futuro.

L’operazione americana pone interrogativi pure alla stessa dirigenza aziendale se Marchionne giunge ad affermare che la carta Chrysler può valere tanto o nulla; la storia ce lo dirà.

Nell’attesa, invece di distribuire il dividendo alle sole azioni privilegiate[3], come da statuto, sarebbe stato maggiormente opportuno modificare lo statuto stesso per la grave situazione finanziaria che colpisce l’azienda, anche se la cifra in sé stessa non sarebbe stata in grado di risolvere il problema.

D’altronde l’aumento di capitale di Unicredit, sottoscritto solo per lo 0,48%, indica che l’azionista oggi è molto cauto a mettere mano al portafoglio, specie se la classe dirigente, che non ha evitato la perdita, resta sempre in sella.

Già due banche hanno garantito il loro aiuto/prestito al Lingotto per l’ammontare complessivo di 1 mld di €, anche se le stesse sono già azioniste della società automobilistica. Si attendono ora le altre.

 

Assistiamo spesso ad un nuovo miscuglio di competenze professionali rischiose: l’industriale si trasforma pure in finanziere e il finanziere in industriale.

Perciò si abdica da una parte al ruolo di sviluppo della genialità e dall’altra al sostegno finanziario alle aziende.

Ne consegue che negli ultimi decenni le società finanziarie hanno abusato del loro ruolo creando pseudo prodotti[4] appositi per produrre valore aggiunto e rilevando partecipazioni in società manifatturiere; ma è bene ricordare che è solo il prodotto materiale che tramite la trasformazione può generare valore aggiunto.

E parte degli industriali, sui dettami imperanti della diversificazione del rischio, hanno fatto la stessa cosa invadendo il campo opposto.

L’intersecarsi di queste spurie competenze porta inevitabilmente ad una sovrapposizione di ruoli che oscura il corretto rapporto tra le parti, vincolandolo non più ad un’analisi attenta dell’utilità del dare e del ricevere, ma al solo interesse delle sinergie create dal nuovo rapporto azionario: ci si sostiene vicendevolmente e … interessatamente.

Ne consegue che le perdite si assommano su entrambi i fronti e che poi tutti battano cassa allo Stato.

Tremonti ribadisce continuamente gli stringenti vincoli di bilancio, puntando su interventi meno onerosi per le casse statali e sulla “purificazione” degli strumenti finanziari; ma non tutti nel Governo la pensano come lui.

In definitiva mi trova in piena sintonia, perché è impensabile continuare ad assommare debito su debito pensando che sia in grado di produrre reddito.

 

Uscire dalla recessione, perciò dalla gravissima crisi in atto, non sarà indolore.

Vi saranno aziende e banche che nei prossimi mesi falliranno sia in Europa che in America; tant’è che lo stesso Obama lo proclama pubblicamente.

Non sprecare ulteriori importanti risorse per sostenere unicamente il mercato, spingendo simultaneamente il consumatore ad indebitarsi col rottamare la propria auto ancora perfettamente funzionante, è un controsenso logico.

Infatti, non vorrei che alla fine sia gli Stati europei, sia i singoli cittadini si ritrovassero con un pugno di mosche in mano. I primi allo sbando e con il sistema industriale in crisi più di prima; i secondi con un “oggetto nuovo” che non potrebbero quasi più usare essendo rimasti senza reddito e lavoro.

 

La salvezza è puntare decisamente su un nuovo sistema nazionale che faccia del distretto industriale (commerciale e finanziario) il punto di forza dell’economia nazionale.

Ciò vincolerà le varie aziende che concorreranno associativamente a implementarlo a radicarsi sul territorio con contratti decennali, ben sapendo che uniti ci si sviluppa, si progredisce e si produce ricchezza, mentre divisi si va ognuno in cerca del nuovo Eldorado.

Gli aiuti statali sono imprescindibili; però dovrebbero essere concessi a chi fosse in grado di dimostrare certi requisiti e si impegnasse a “potenziare” il territorio.

Diversamente il mantenere per alcuni mesi anche un milione di posti di lavoro non risolverebbe il problema, bensì affosserebbe risorse necessarie e fondamentali per la ripresa, specie se queste venissero immolate, aumentando il debito pubblico, sull’altare dell’inutilità sociale se non politicamente spiccia.

Forse, oltre all’attenzione all’impiego delle risorse, vi è bisogno di un nuovo soggetto professionale: di un industriale che non sia solo un manager d’assalto, di un finanziere che non badi solo all’utile facile e di un cittadino che sia in grado di dare e non solo di pretendere.

 

Gli ecoincentivi, sintetizzando, possono essere utili in quelle nazioni dove negli anni precedenti non sono mai stati praticati, ma non da noi dove nell’ultimo biennio si sono concessi.

Chi non ne ha ancora usufruito è perché non si è potuto permettere tale lusso; e con la recessione in atto lo potrà fare ancora meno.

Diversamente il crollo delle immatricolazioni negli ultimi mesi non avrebbe avuto ragione di esistere.

 

 

 

Sam Cardell


[1] – Si ricorda che molti detenuti non sono neppure stati incriminati e processati.

[2] – L’aggettivo non vuole essere irrispettoso, ma solo sintomatico di come viene trattato il problema: o così (gli aiuti) o cosà (60.000 a casa). E ciò non mi sembra molto corretto.

[3] – Intestate per la maggior parte ai soliti noti.

[4] – Buona parte dei quali hanno poi creato la grande crisi finanziaria globalizzata che ha investito di riflesso l’economia e l’industria.

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Una risposta a Un progetto strutturale nell’economia nazionale: il distretto industriale.

  1. sesto ha detto:

    sam posso dire una delle mie cavolate?il tuo dire mi trova daccordo con una realtà che non mi iace…ti spiegocioè vorrei dire le mie considerazioni ma non spiegarti nulla a te che sai molto di più di me- perchè pagare a una ditta denaro pubblico?-perchè non fare scelte economiche che prediligano gli interessi del popolo?- ma il rischio di impresa per chi è?- perchè paghiamo gli aumenti e i ribassi non vengono praticati- se hanno surplus lo vendano a costo zero semplicemente – incentivi? a chi? -ultimo se vogliono fare …….buttiamo a fondo gli enti pbblici e enti non produttivi, eliminiamo burograzia e burocrati…. apriamo questo nostro meraviglioso paese al turismo……vendiamo le macchine blu e liberiamo il parco macchine…….liberiamoci da chi non gradisce la libera volontà di progredire …..to be continued…..

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